All’età di 16 anni, mentre i miei amici si perdevano nelle foreste boliviane narrate negli appunti odorosi di sigaro del comandante Guevara, io sceglievo, forse per il puro piacere di voler esser diverso, una lettura che di galvanizzante aveva solo il titolo: Il trattato del ribelle. Sarò sincero: ignoravo completamente chi fosse tale Ernst Jünger. All’epoca internet era ancora privilegio per pochissimi e tutto ciò che sconfinava dal recinto della bigotta e sterile istruzione italiana era terra inesplorata al pari del Congo belga. Ispirato però dal titolo allettante e dal fascino del cognome teutonico, avevo deciso di affrontare il volumetto dalla sobria copertina, rassicurato anche dall’esiguo numero di pagine che mi si paravano innanzi. Dire che quel libro ha cambiato la mia vita sarebbe una sciocchezza oltre che una bugia; ma non esagero affermando che di sicuro è stato un testo altamente formativo. Ovviamente non prima della terza rilettura. Con il linguaggio che può esser proprio solo a chi ha passato notti intere nel fango di una trincea durante la prima guerra mondiale, pagina dopo pagina, Jünger mi apriva gli occhi su concetti semplici ma che, al pari di un insegnamento esoterico, avevano bisogno di essere rivelati. A differenza del roboante Guevara – figura che col tempo ho anche imparato ad apprezzare, nelle sue luci ed ombre – il ribelle di quelle pagine non era un eroe da fumetto, da imprese mediatiche o quant’altro. Ciò che ho trovato sconcertante all’epoca – e rincuorante ancora oggi – è che il vero ribelle non ha bisogno di rivoluzioni armate, baie dei Porci o ghigliottine in piazza. Jünger mi parlava dell’uomo concreto che agisce nel caso concreto; un uomo d’azione, azione libera ed indipendente, il cui motto è “hic et nunc”; un uomo ancora capace di saper pronunciare un secco “no”; un uomo che sa che “la condizione in cui ci troviamo ci obbliga a fare i conti con la catastrofe e a coricarci al suo fianco perché essa non ci sorprenda durante il sonno”. Der Waldgang, colui che compie il passaggio al bosco, traccia per terra una linea di separazione netta, il proprio fronte presso cui attestarsi e combattere. E lo fa non già con un fucile od uno sciopero della fame, bensì con l’esempio, scegliendo come vivere. Leggere Jünger a 16 anni mi ha immunizzato da uno dei mali virali più dannosi della gioventù: l’omologazione. Mi ha insegnato che si può essere ribelli senza dover necessariamente sventolare questa o quella bandiera, senza dover recitare slogan più o meno convincenti. Mi ha insegnato la differenza sostanziale tra massa e comunità. In un’intervista rilasciata a Gianfranco de Turris, Evola ironizzava sui giovani e sui loro facili entusiasmi, affermando di aspettarli quanto meno al traguardo dei trent’anni per vedere quanto fosse profonda la radice di quell’interesse e di quell’entusiasmo. Io ho un ottimo ricordo dei miei 16 anni e credo – ma sono di parte – che le posizioni e le idee nate in quella fase della mia vita sono attecchite e hanno germogliato, seppur con qualche accorgimento, fino ad oggi che mi appresto, con serenità, a quel traguardo trentennale. Non c’è la stessa serenità, però, in ciò che mi circonda, tristemente privo di ribelli degni di tale appellativo. Forse pecco di eccessiva intransigenza, ma è sempre più difficile scorgere giovani che non siano irrimediabilmente apatici e più propensi alla sconfitta che alla vittoria. Possibile che sappiano essere leoni solo dietro ad una tastiera o la notte in discoteca e non nella vita – reale – di tutti i giorni? Sorrido, inguaribile ottimista. Prendo dalla libreria il volumetto – oramai logoro – del caro Ernst e mi soffermo su di un passaggio che avevo sottolineato a matita: «tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos’è la libertà. E non soltanto quei lupi sono forti in se stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco. È questo l’incubo dei potenti. ». Tendo l’orecchio al silenzio della notte. Mi piace credere di aver sentito, in lontananza, un lupo ululare.