C’è la storia di don Osvaldo, parroco di una frazione bellunese, che durante la prima visita alle case dei suoi parrocchiani è stato scambiato per un vu’ cumpra’ e allontanato. O quella di Thierry, africano che si è integrato lavorando in fabbrica e che chiede di condannare con forza le parole di chi sostiene che tutti gli immigrati delinquono. Ma ci sono anche due cornici vuote, in ricordo di giovani stranieri deceduti per malattia poco dopo il loro arrivo in Italia. Queste ed altre 40 storie sono protagoniste della mostra “Io sono bellunese”, allestita in municipio a Calalzo con inaugurazione il 17 settembre alle 17.30; l'esposizione resterà aperta fino al 3 ottobre. Autore delle immagini e dei testi, volutamente provocatori a partire dal titolo, è il bellunese Roberto Muraro, che ha fatto del proprio lavoro una esposizione itinerante finora ospitata già da 7 comuni della provincia.
“La mia idea, che non tarderò ad attuare in ogni forma consentitami dalla legge, è che pur nell’uguaglianza dei diritti fondamentali (quali la scuola e la sanità), siano da riconoscere particolari benefici a tutti coloro che hanno un forte legame col territorio e che lavorano per la sua crescita e il suo benessere – spiega il sindaco di Calalzo Luca De Carlo –. Non solo chi è nato qui, quindi, ma anche gli immigrati residenti che, come quelli raccontati nelle foto della mostra, desiderano integrarsi e legarsi al paese in cui hanno scelto di abitare. In una regione in cui ormai un ‘veneto’ su 10 è immigrato, dobbiamo fare i conti con identità e tradizioni forzatamente differenti da quelle con cui siamo cresciuti. Ospitando la mostra di Muraro, credo che l’amministrazione di Calalzo stia dando un segnale rispetto al tipo di immigrazione positiva per il territorio e che a quest’ultimo può apportare benefici senza creare forme di razzismo o di intolleranza negli autoctoni”.
“Se la politica dev’essere anche capacità di fare delle scelte – prosegue De Carlo -, credo non sia sbagliato dare priorità nell’erogazione di benefit a coloro che sposano la nostra identità senza perdere la propria, ma ricercando una convivenza che lavori su un progetto comune, quali sono il benessere e la crescita del territorio. Questa è la via migliore per integrare senza difficoltà: non l’assistenzialismo, ma ad esempio la possibilità e l’orgoglio di avere un lavoro, che da sempre ha contraddistinto il popolo Veneto anche quando gli emigranti eravamo noi. E proprio il lavoro è la caratteristica prima, a mio parere, per riscattarsi dalla povertà che ti ha costretto ad emigrare, e per costruire il futuro proprio e del paese che ti ospita”.
A dimostrarlo sono personaggi come Don Osvaldo e Thierry, rappresentati nelle foto e nei testi della raccolta di Roberto Muraro. Il primo, sacerdote ghanese laureato, è arrivato a Mussoi (Belluno) in inverno, e subito ha desiderato incontrare i propri parrocchiani. Per il freddo, sopra la tonaca indossava un cappotto. Per questo non è stato riconosciuto da una parrocchiana, che l’ha identificato a prima vista come un vu’ cumpra’ ed inizialmente l’ha cacciato a male parole. Oggi Don Osvaldo è amatissimo a Mussoi, dove tiene in vita una mensa per i poveri e un centro di distribuzione di abiti usati per chi è povero come lo era lui al suo arrivo in Italia. Tra le storie in mostra, c’è poi quella di Thierry, operaio, che chiede solo di punire i delinquenti, sia immigrati che italiani, senza essere etichettato subito come criminale e “condannato” a priori alle peggiori torture. “Proprio perché respingiamo i pregiudizi – conclude De Carlo – patrociniamo ed ospitiamo storie come queste nel nostro municipio. E’ innanzitutto un segnale: chi lavora per il territorio, sia immigrato che italiano, è in cima alla lista delle nostre priorità. Se la politica, soprattutto in un momento di crisi, deve fare delle scelte, questo è e sarà sempre il primo criterio che vogliamo adottare, come ha suggerito di recente anche il patriarca di Venezia Angelo Scola e come presto sarà sancito dallo Statuto del Veneto”.